martedì 19 settembre 2017

L'ISTITUZIONE PSICHIATRICA 2.0


Grazie alla legge 180, l’istituzione psichiatrica oggi non è più un ente segregativo, isolato e  lontano dalla città e dai suoi abitanti. L’istituzione non prende più il nome di manicomio che definiva il luogo in cui erano rinchiusi i folli, visti come un pericolo per la società. Non si tratta più di fare una diagnosi assoluta[1] e dunque di decidere in modo inequivocabile se un soggetto sia o meno folle e se abbia l’obbligo di restare internato o il diritto di essere libero.
Oggi, al posto dei manicomi, esistono diverse tipologie di istituzione psichiatrica come le comunità, i centri diurni, i reparti psichiatrici degli ospedali (SPDC: servizio psichiatrico di diagnosi e cura), che funzionano in modo diverso, secondo modelli di accoglienza (comunità e centri diurni) o di emergenza (SPDC). E’ possibile che un servizio di emergenza come il servizio psichiatrico di diagnosi e cura, sia più vicino alla logica della diagnosi assoluta che a una diagnosi differenziale basata sull’incontro con il soggetto e con la sua soggettività: c’è un’abitudine di fondo della psichiatria a dare definizioni precise, dentro o fuori.
L’ente che maggiormente si mette in condizione di creare dei legami sociali, è la comunità psichiatrica. La psicoanalisi collabora con la medicina ma, allo stesso tempo, si discosta da una visione medicalizzata del paziente. Foucault, parlando di Lacan, sostiene che:

Lacan voleva sottrarre la psicoanalisi alla prossimità, che riteneva pericolosa, della medicina e delle istituzioni mediche. In essa non cercava un processo di normalizzazione dei comportamenti, ma una teoria del soggetto [...][2].

Anche Stoppa[3] sottolinea quanto sia importante che, da parte di chi opera nell'istituzione, ci sia una costante interrogazione sul senso dell’istituzione stessa, sul compito, sulle possibili strategie da mettere in atto. Interrogarsi sul senso significa evitare di proporre un sapere pieno, dei protocolli prestabiliti, un modello unico di salute. Basaglia aveva intuito che il sapere non deve essere completo ma ad esso deve essere sottratto un pezzo, deve essere sempre in perdita. Solo la pratica è in grado di mettere in scacco il sapere padrone della scienza[4] (ad esempio quello medico o psichiatrico) e lasciare lo spazio per una domanda aperta di sapere che eviti la costruzione di modelli e ideologie di cura validi per tutti.
La comunità terapeutica mette in gioco le risorse di salute presenti in quelli che sono i fondamenti della comunità umana: ciò che il legame sociale non sa più produrre in termini di senso umano, si rigenera lì, in un luogo protetto. Ciò che è terapeutico è il mantenimento di uno spazio soggettivo e discorsivo dove il soggetto viene riconosciuto come particolare.

Sul lavoro con i pazienti delle comunità, è importante che l’operatore sappia sottrarsi e contenere le sue aspettative, le sue attese e i suoi ideali, così il paziente può sentirsi più libero di fare dei passi in avanti. Questo non significa che non si debba chiedere nulla ai pazienti, trattandoli come individui incapaci di assumersi responsabilità. Le richieste non devono essere relative a qualcosa di ideale ma a elementi di realtà della relazione con il paziente in cui non deve entrare in gioco il desiderio del singolo operatore ma un dato di struttura, un elemento terzo che vale per tutti: il rispetto delle regole, l’attenzione per gli spazi comuni, il rispetto reciproco, la cura per il proprio corpo.

- Dott.ssa Rossana Curatolo






[1] M. Foucalult, Il potere psichiatrico, cit. p. 230
[2] M. Colucci, Il caso clinico in psichiatria e in psicoanalisi, in L. S. Bonifati, C. Tartaglione (a cura di), Costruzione del caso clinico e tecnica psicoanalitica, Milano-Udine, Mimesis Edizoni, 2014, cit. p. 44
[3]  F. Stoppa, La prima curva dopo il paradiso, Roma, Borla, 2007, p. 39
[4] M. Colucci, Il caso clinico in psichiatria e in psicoanalisi, in L. S. Bonifati, C. Tartaglione (a cura di), Costruzione del caso clinico e tecnica psicoanalitica, Milano-Udine, Mimesis Edizoni, 2014, cit. p. 46

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