Grazie alla legge 180, l’istituzione
psichiatrica oggi non è più un ente segregativo, isolato e lontano dalla
città e dai suoi abitanti. L’istituzione non prende più il nome di manicomio che
definiva il luogo in cui erano rinchiusi i folli, visti come un pericolo per la
società. Non si tratta più di fare una diagnosi assoluta[1] e dunque di decidere in modo inequivocabile
se un soggetto sia o meno folle e se abbia l’obbligo di restare internato o il
diritto di essere libero.
Oggi,
al posto dei manicomi, esistono diverse tipologie di istituzione psichiatrica
come le comunità, i centri diurni, i reparti psichiatrici degli ospedali (SPDC:
servizio psichiatrico di diagnosi e cura), che funzionano in modo diverso,
secondo modelli di accoglienza (comunità e centri diurni) o di emergenza
(SPDC). E’ possibile che un servizio di emergenza come il servizio psichiatrico
di diagnosi e cura, sia più vicino alla logica della diagnosi assoluta che a
una diagnosi differenziale basata sull’incontro con il soggetto e con la sua
soggettività: c’è un’abitudine di fondo della psichiatria a dare definizioni
precise, dentro o fuori.
L’ente
che maggiormente si mette in condizione di creare dei legami sociali, è la
comunità psichiatrica. La psicoanalisi collabora con la medicina ma, allo
stesso tempo, si discosta da una visione medicalizzata del paziente. Foucault,
parlando di Lacan, sostiene che:
“Lacan voleva sottrarre la psicoanalisi alla prossimità, che riteneva pericolosa, della medicina e delle istituzioni mediche. In essa non cercava un processo di normalizzazione dei comportamenti, ma una teoria del soggetto [...]”[2].
Anche
Stoppa[3] sottolinea quanto sia importante che, da parte di chi
opera nell'istituzione, ci sia una costante interrogazione sul senso
dell’istituzione stessa, sul compito, sulle possibili strategie da mettere in
atto. Interrogarsi sul senso significa evitare di proporre un sapere
pieno, dei protocolli prestabiliti, un modello unico di salute. Basaglia aveva
intuito che il sapere non deve essere completo ma ad esso deve essere sottratto
un pezzo, deve essere sempre in perdita. Solo la pratica è in grado di mettere
in scacco il sapere padrone della scienza[4] (ad esempio quello medico o psichiatrico)
e lasciare lo spazio per una domanda aperta di sapere che eviti la costruzione
di modelli e ideologie di cura validi per tutti.
La comunità terapeutica mette in gioco le
risorse di salute presenti in quelli che sono i fondamenti della comunità umana:
ciò che il legame sociale non sa più produrre in termini di senso umano, si
rigenera lì, in un luogo protetto. Ciò che è terapeutico è il mantenimento di
uno spazio soggettivo e discorsivo dove il soggetto viene riconosciuto come
particolare.
Sul lavoro con i pazienti delle comunità,
è importante che l’operatore sappia sottrarsi e contenere le sue aspettative,
le sue attese e i suoi ideali, così il paziente può sentirsi più libero di fare
dei passi in avanti. Questo non significa che non si debba chiedere nulla ai
pazienti, trattandoli come individui incapaci di assumersi responsabilità. Le
richieste non devono essere relative a qualcosa di ideale ma a elementi di
realtà della relazione con il paziente in cui non deve entrare in gioco il
desiderio del singolo operatore ma un dato di struttura, un elemento terzo che
vale per tutti: il rispetto delle regole, l’attenzione per gli spazi comuni, il
rispetto reciproco, la cura per il proprio corpo.
- Dott.ssa Rossana Curatolo
- Dott.ssa Rossana Curatolo
[1] M. Foucalult, Il potere psichiatrico, cit. p. 230
[2] M.
Colucci, Il caso clinico in psichiatria e in
psicoanalisi, in L. S. Bonifati, C. Tartaglione (a cura di), Costruzione del caso clinico e tecnica psicoanalitica,
Milano-Udine, Mimesis Edizoni, 2014, cit. p. 44
[3] F. Stoppa, La prima curva dopo il paradiso, Roma, Borla, 2007, p. 39
[4] M. Colucci, Il caso clinico in psichiatria e in psicoanalisi, in L. S. Bonifati, C. Tartaglione (a cura di), Costruzione del caso clinico e tecnica psicoanalitica, Milano-Udine, Mimesis Edizoni, 2014, cit. p. 46
[3] F. Stoppa, La prima curva dopo il paradiso, Roma, Borla, 2007, p. 39
[4] M. Colucci, Il caso clinico in psichiatria e in psicoanalisi, in L. S. Bonifati, C. Tartaglione (a cura di), Costruzione del caso clinico e tecnica psicoanalitica, Milano-Udine, Mimesis Edizoni, 2014, cit. p. 46
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