venerdì 29 settembre 2017

LA MANCANZA A ESSERE

Il termine mancanza potrebbe indurre a pensare a qualcosa di negativo, ad un “meno”, a qualcosa che manca, che non c’è ed effettivamente essa rappresenta qualcosa che non c’è, ma potrebbe esserci. E’ uno “spazio” che può essere colmato nient’altro che dal desiderio. E’ proprio la mancanza a permettere la nascita e lo sviluppo del desiderio. Prima di Lacan, Freud aveva mostrato che il soggetto è costantemente alla ricerca dell’oggetto perduto, da sempre perduto, e il suo ritrovamento consiste in qualcosa che non si è mai posseduto. Quest’oggetto diventa per Lacan, l’oggetto causa del desiderio, una mancanza produttiva.  Il desiderio emerge in relazione al desiderio dell’Altro: esso non è desiderio di un oggetto ma desiderio di riconoscimento, il soggetto desidera essere riconosciuto dal desiderio dell’Altro. Ciò avviene in primo luogo tra la madre e il bambino. La madre, il primo Altro, riconosce il figlio come soggetto particolare e unico non donandogli un oggetto (le cure materiali) bensì la sua mancanza a essere, alternando la sua presenza e la sua assenza e alimentando, in questo modo, il desiderio del figlio. E’ proprio l’assenza come sinonimo di mancanza – e come condizione di presenza – a muovere il soggetto verso il proprio desiderio e verso la vita stessa.
Il desiderio può tuttavia essere misconosciuto dal soggetto in favore del godimento: la nostra epoca è caratterizzata da un appiattimento del desiderio sulla soddisfazione immediata del bisogno. In questo caso, la mancanza non è né attesa né motore del desiderio bensì un vuoto che il soggetto tende illusoriamente a colmare. 
Con il discorso del capitalista Lacan mostra come il soggetto ipermoderno non si relaziona con l’Altro ma con l’oggetto piccolo a. La società capitalista produce una serie continua e infinita di oggetti e bisogni nuovi con l’illusione di colmare il vuoto. Il vuoto è per struttura incolmabile e la ricerca illimitata di oggetti (a) non può che produrre insoddisfazione.
La crisi della nostra società può forse essere imputata all’inganno prodotto dal discorso del capitalista? All'illusione cioè di poter colmare il vuoto? 
Nel film di Sean Penn “Into the wild - Nelle terre selvagge”, il giovane protagonista Christorpher Mc Candless, alias Alexander Supertramp, subito dopo la laurea in scienze sociali, abbandona la famiglia e gli amici per intraprendere un viaggio attraverso gli Stati Uniti, fino a raggiungere l’Alaska. La sua è una vera è propria fuga dal capitalismo: non riesce più a vivere in una società consumista dove tutto ciò che conta è il possesso di oggetti materiali e decide di donare tutti i suoi risparmi ad una associazione benefica; in una scena emblematica del film, Chris brucia gli unici soldi che ha con sé poco prima di partire. La Natura, da lui tanto ricercata nel suo viaggio, può essere metaforicamente interpretata come una ricerca del proprio desiderio e quindi un’apertura e un’accettazione totale della propria mancanza a essere. Chris è una persona che si interroga sui legami sociali e sulla loro autenticità: parte da solo ma non è un solitario, ha una grande capacità di vivere in relazione con gli altri arricchendo e arricchendosi continuamente nel corso dei suoi incontri e quando finalmente arriva in Alaska, giunge anche alla propria verità vale a dire che la condivisione, la relazione con l’Altro sono condizioni indispensabili per una vita piena. Il film si conclude infatti con una frase che Chris scrive su un libro: “la felicità è reale solo se condivisa”.
Anche il percorso analitico potrebbe essere letto come un viaggio alla ricerca del proprio desiderio e che permetta di soggettivare la propria esistenza mitigando la propria mancanza.

- Dott.ssa Rossana Curatolo

martedì 19 settembre 2017

L'ISTITUZIONE PSICHIATRICA 2.0


Grazie alla legge 180, l’istituzione psichiatrica oggi non è più un ente segregativo, isolato e  lontano dalla città e dai suoi abitanti. L’istituzione non prende più il nome di manicomio che definiva il luogo in cui erano rinchiusi i folli, visti come un pericolo per la società. Non si tratta più di fare una diagnosi assoluta[1] e dunque di decidere in modo inequivocabile se un soggetto sia o meno folle e se abbia l’obbligo di restare internato o il diritto di essere libero.
Oggi, al posto dei manicomi, esistono diverse tipologie di istituzione psichiatrica come le comunità, i centri diurni, i reparti psichiatrici degli ospedali (SPDC: servizio psichiatrico di diagnosi e cura), che funzionano in modo diverso, secondo modelli di accoglienza (comunità e centri diurni) o di emergenza (SPDC). E’ possibile che un servizio di emergenza come il servizio psichiatrico di diagnosi e cura, sia più vicino alla logica della diagnosi assoluta che a una diagnosi differenziale basata sull’incontro con il soggetto e con la sua soggettività: c’è un’abitudine di fondo della psichiatria a dare definizioni precise, dentro o fuori.
L’ente che maggiormente si mette in condizione di creare dei legami sociali, è la comunità psichiatrica. La psicoanalisi collabora con la medicina ma, allo stesso tempo, si discosta da una visione medicalizzata del paziente. Foucault, parlando di Lacan, sostiene che:

Lacan voleva sottrarre la psicoanalisi alla prossimità, che riteneva pericolosa, della medicina e delle istituzioni mediche. In essa non cercava un processo di normalizzazione dei comportamenti, ma una teoria del soggetto [...][2].

Anche Stoppa[3] sottolinea quanto sia importante che, da parte di chi opera nell'istituzione, ci sia una costante interrogazione sul senso dell’istituzione stessa, sul compito, sulle possibili strategie da mettere in atto. Interrogarsi sul senso significa evitare di proporre un sapere pieno, dei protocolli prestabiliti, un modello unico di salute. Basaglia aveva intuito che il sapere non deve essere completo ma ad esso deve essere sottratto un pezzo, deve essere sempre in perdita. Solo la pratica è in grado di mettere in scacco il sapere padrone della scienza[4] (ad esempio quello medico o psichiatrico) e lasciare lo spazio per una domanda aperta di sapere che eviti la costruzione di modelli e ideologie di cura validi per tutti.
La comunità terapeutica mette in gioco le risorse di salute presenti in quelli che sono i fondamenti della comunità umana: ciò che il legame sociale non sa più produrre in termini di senso umano, si rigenera lì, in un luogo protetto. Ciò che è terapeutico è il mantenimento di uno spazio soggettivo e discorsivo dove il soggetto viene riconosciuto come particolare.

Sul lavoro con i pazienti delle comunità, è importante che l’operatore sappia sottrarsi e contenere le sue aspettative, le sue attese e i suoi ideali, così il paziente può sentirsi più libero di fare dei passi in avanti. Questo non significa che non si debba chiedere nulla ai pazienti, trattandoli come individui incapaci di assumersi responsabilità. Le richieste non devono essere relative a qualcosa di ideale ma a elementi di realtà della relazione con il paziente in cui non deve entrare in gioco il desiderio del singolo operatore ma un dato di struttura, un elemento terzo che vale per tutti: il rispetto delle regole, l’attenzione per gli spazi comuni, il rispetto reciproco, la cura per il proprio corpo.

- Dott.ssa Rossana Curatolo






[1] M. Foucalult, Il potere psichiatrico, cit. p. 230
[2] M. Colucci, Il caso clinico in psichiatria e in psicoanalisi, in L. S. Bonifati, C. Tartaglione (a cura di), Costruzione del caso clinico e tecnica psicoanalitica, Milano-Udine, Mimesis Edizoni, 2014, cit. p. 44
[3]  F. Stoppa, La prima curva dopo il paradiso, Roma, Borla, 2007, p. 39
[4] M. Colucci, Il caso clinico in psichiatria e in psicoanalisi, in L. S. Bonifati, C. Tartaglione (a cura di), Costruzione del caso clinico e tecnica psicoanalitica, Milano-Udine, Mimesis Edizoni, 2014, cit. p. 46

martedì 22 agosto 2017

INTERVISTA A JACQUES LACAN


Che cosa non va, oggi, nell’uomo ?
J.L. – C’è questa grande fatica di vivere, come risultato della corsa al progresso. Dalla psicoanalisi ci si aspetta che scopra fin dove si può arrivare trascinando questa fatica, questo malessere della vita.
 Che cosa spinge la gente a farsi psicoanalizzare ?
J.L. – La paura. Quando gli accadono cose, persino volute da lui, che non capisce, l’uomo ha paura. Soffre di non capire, e a poco a poco entra in uno stato di panico. È la nevrosi. Nella nevrosi isterica il corpo si ammala dalla paura di essere malato, e senza in realtà esserlo. Nella nevrosi ossessiva la paura mette cose bizzarre dentro la testa, pensieri che non si possono controllare, fobie in cui forme e oggetti acquistano significati diversi e paurosi.
 Per esempio ?
J.L. – Succede al nevrotico di sentirsi forzato da un bisogno spaventoso di andare a verificare decine di volte se un rubinetto è veramente chiuso o se una data cosa sta nel dato posto, pur sapendo con certezza che il rubinetto è come dev’essere e la cosa sta dove deve stare. Non ci sono pillole che guariscono questo. Devi scoprire perché ti accade, e sapere che cosa significa.
E la cura ?
J.L. – Il nevrotico è un malato che si cura con la parola, prima di tutto con la sua. Deve parlare, raccontare, spiegare se stesso. Freud la definisce « assunzione da parte del soggetto della propria storia, nella misura in cui è costituita dalla parola indirizzata a un altro ».
La psicoanalisi è il regno della parola, non ci sono altre medicine. Freud spiegava che l’Inconscio non tanto è profondo, quanto piuttosto inaccessibile all’approfondimento cosciente. E diceva che in questo Inconscio «c’è chi parla»: un soggetto nel soggetto, trascendente il soggetto. La parola è la grande forza della psicoanalisi.
Parole di chi? Del malato o dello psicoanalista?
J.L. – In psicoanalisi i termini malato, medico, medicina non sono esatti, non si usano. Non sono giuste neppure le formule passive che si adoperano comunemente. Si dice « farsi psicoanalizzare ». È sbagliato. Chi fa il vero lavoro, nell’analisi, è quello che parla, il soggetto analizzante. Anche se lo fa nel modo suggerito dall’analista, che gli indica come procedere e lo aiuta con interventi. Gli viene fornita anche un’interpretazione, che a prima botta sembra dare un senso a quello che l’analizzante dice.
In realtà l’interpretazione è più sottile, tesa a cancellare il senso delle cose di cui il soggetto soffre. Il fine è quello di mostrargli, attraverso il suo stesso racconto, che il suo sintomo, la malattia, diciamo, non ha alcun rapporto con niente, è privo di qualsiasi senso. Quindi, anche se in apparenza è reale, non esiste.
Le vie per cui procede questa azione della parola richiedono molta pratica e infinita pazienza. La pazienza e la misura sono gli strumenti della psicoanalisi. La tecnica consiste nel saper misurare l’aiuto che si dà al soggetto analizzante. Perciò la psicoanalisi è difficile.


INTERVISTA a JACQUES LACAN RILASCIATA A PANORAMA IL 21 NOVEMBRE 1974 

pubblicata sul sito www.lacan-con-freud.it