domenica 16 dicembre 2018

Diagnosi psichiatrica vs diagnosi psicoanalitica

Che differenza c'è tra psichiatria e psicoanalisi nell'approccio con i pazienti? Cos'è una diagnosi e a cosa serve? E' utile al medico o al paziente?
In questo articolo metterò in luce le differenze metodologiche e strutturali tra la medicina e la psicoanalisi nella formulazione di una diagnosi.


La diagnosi psichiatrica 

Per la psichiatria tradizionale l’osservazione e la raccolta dei sintomi risponde a un criterio medico-scientifico di obiettività. L’anamnesi avviene a senso unico: il paziente riferisce gli elementi della sua storia relativi al malessere attuale con il fine di elaborare una loro classificazione obiettiva. In questo contesto la diagnosi è un’operazione preliminare alla somministrazione di una terapia. Nel commento che Recalcati fa sul colloquio psichiatrico, nel libro La pratica del colloquio clinico, afferma che avere come obiettivo del colloquio la descrizione dei sintomi, toglie al sintomo stesso ogni soggettività; così la malattia è qualcosa che non appartiene al soggetto ma è un evento che lo colpisce dall’esterno. All’interno di questa visione del sintomo, la parola del soggetto non è implicata nel processo di cura poiché quello che conta è l’obiettività di ciò che si osserva. Il soggetto in cura è ridotto a oggetto di osservazione e ciò che è in primo piano è il sapere medico-scientifico che conduce all’applicazione di protocolli di intervento standardizzati, con l’abolizione della particolarità del caso clinico. 
Il DSM è uno dei manuali di psicopatologia descrittiva maggiormente utilizzati per la classificazione dei sintomi. Esso si basa su una concezione medica e obiettiva della malattia mentale.
La pocket guide del “progetto DSM-5” recita così:

se siete efficienti ed empatici, potete elicitare i sintomi psichiatrici fondamentali e i tratti di personalità di una persona con sofferenza o malattia mentale in 30 minuti. Per farlo bisogna esercitarsi.

Questa definizione evidenzia l’importanza di fare diagnosi non solo con l’obiettivo di collocare un paziente in una certa categoria, ma di farlo anche rapidamente, chiamando in causa l’empatia come strumento utile a far affiorare i sintomi necessari alla catalogazione. Peraltro, il DSM, il dispositivo principalmente utilizzato dalla psichiatria per portare avanti l’atto diagnostico, presenta una serie di vincoli come il ruolo delle aziende farmaceutiche nell’offerta del farmaco (diagnosi=farmaco), l’inclusione del sistema sanitario e assicurativo per i rimborsi (diagnosi=rimborsi), la diffusione mediatica e via internet, con la possibilità di ottenere una diagnosi quasi autonomamente cercando i propri sintomi attraverso i motori di ricerca. Anche se presentati in un’ottica negativa, questi vincoli sono in parte inevitabili e permettono ai pazienti di potersi permettere di vivere all’interno di una istituzione. 
Nel momento in cui viene dato un nome, attraverso la diagnosi, alla sofferenza del paziente, si innesca un’attivazione da parte della medicina e del soggetto per una risoluzione immediata del sintomo attraverso l’offerta di diversi farmaci che sembrano diventare oggetto di godimento da ottenere senza che però subentri nel soggetto un desiderio di sapere. Anche un trattamento standardizzato, non necessariamente farmacologico, può essere affrontato senza implicazione soggettiva se nel processo diagnostico il paziente viene collocato nella posizione di oggetto di indagine. 
Alcuni autori, come Irvine Hoffman, attaccano duramente la classificazione diagnostica considerandola una generalizzazione e una forma di inaridimento dell’esperienza umana. Per Hoffman, ogni categorizzazione diagnostica è un gesto di “oggettivismo autoritario”.
La valutazione diagnostica inserisce i sintomi che si osservano e si valutano in un elenco composto da un certo numero di altri sintomi, per costruire un disturbo codificato. Mario Bottone nel suo articolo, A proposito della valutazione psichiatrica, cita Jacques Alain Miller nel sostenere che il sintomo è ciò che fa enigma, rappresenta una x e viene valutato. L’operazione della valutazione fa si che questa x diventi un disturbo. Quest’operazione valutativa fa passare un soggetto dall’essere unico e particolare ad essere omologato ad una certa categoria.
Nel suo intervento al dipartimento clinico Gennie Lemoine del 2016, Vittorio Lingiardi cerca di mettere in tensione ciò che viene considerato nomotetico, generalizzabile, oggettivo e ciò che invece è definito soggettivo, idiografico, irriducibile. Da una parte gli strumenti diagnostici e i loro codici statistici; dall’altra, le parole, gli effetti, i silenzi della stanza d’analisi. Sostiene che quando si ha a che fare con un paziente che ha una certa diagnosi, si incontra una persona che appartiene ad una comunità ideale di sintomi e caratteristiche descrivibili che non riguardano esclusivamente la persona che si ha davanti. Allo stesso tempo, ci si confronta con una persona che ha il suo modo soggettivo di appartenere a quei sintomi e quelle strutture. E’ importante mantenere una visione binoculare in grado di tenere insieme l’“etichetta diagnostica” e la “formulazione del caso”. Sostanzialmente, la diagnosi non deve essere pensata in modo indipendente dal trattamento ma come una sintesi dei problemi e delle risorse di un paziente e come guida per portare avanti il trattamento. Inoltre, Lingiardi invita ad evitare di portare avanti posizioni unilaterali, pro o contro il DSM, per non cadere in atteggiamenti di antidiagnosticismo radicale o antipsichiatria naif. Ciò che conta è l’abilità del clinico nel trattare il paziente in modo unico.

La diagnosi psicoanalitica

In psicoanalisi l’atto diagnostico è una costruzione che orienta lo psicoanalista nella cura. Non è l’assegnazione di un’etichetta ad un soggetto sulla base dell’osservazione dei sintomi. La diagnosi è un atto concettuale che differenzia le strutture e, di conseguenza, orienta la cura. La clinica psicoanalitica è la clinica dell’uno per uno, così come la costruzione diagnostica del caso non segue i criteri di un manuale statistico ma si fonda principalmente sul transfert che, come segnala E. Mundo nel testo La diagnosi in psicoanalisi, richiede una posizione etica di ascolto del discorso del soggetto. La persona che si incontra in analisi non è un oggetto di osservazione ma un soggetto particolare. L’ascolto della parola del soggetto implica la sospensione delle generalizzazioni, delle catalogazioni, dei protocolli standardizzati. Il colloquio psichiatrico tradizionale tende a produrre un effetto di reificazione del soggetto, di riduzione del soggetto a oggetto di osservazione scientifica per reperire i segni che possano classificare quel soggetto in un quadro nosografico predeterminato.
Recalcati costruisce un’opposizione tra clinica dello sguardo e clinica dell’ascolto. La clinica dello sguardo è quella della psichiatria tradizionale dove lo sguardo della scienza è uno sguardo obiettivo, neutrale, oggettivo e abolisce il soggetto della parola. La malattia, in questo caso, appare come un’entità autonoma, desoggettivata, che il soggetto subisce e che viene estratta sulla base dei segni osservabili.
La clinica dell’ascolto è la clinica della psicoanalisi, la quale difende la parola del soggetto e il suo carattere irriducibile. Ogni soggetto è un’eccezione alla regola, il soggetto non può essere ridotto a una classe o a una tipologia astratta di sintomi. Dunque è importante ascoltare la parola del paziente, darle dignità, prendere alla lettera ciò che dice per arrivare a formulare una diagnosi di tipo strutturale e comprendere come si inserisce il soggetto nel campo delle nevrosi, delle psicosi o delle perversioni.
La clinica dello sguardo e la clinica dell’ascolto non si escludono a vicenda: come accennato sopra, è importante tenere insieme una dimensione statica della diagnosi - costituita dall’anamnesi del paziente, dall’osservazione di segni e sintomi - e una dimensione dinamica - l’incontro con il paziente e la sua posizione rispetto alla sua storia e ai sintomi di cui soffre. 

La diagnosi psicoanalitica è una diagnosi strutturale che si costruisce a partire da un’etica dell’ascolto, la quale implica non tanto il sapere di chi ascolta quanto la parola del paziente, del suo sapere inconscio. Ciò che interessa all’analista è la parola del soggetto dell’inconscio che parla in contraddizione al discorso cosciente dell’io. Per arrivare ad una diagnosi strutturale è importante fare luce sul modo soggettivo con il quale il soggetto attribuisce un senso ai propri sintomi. A differenza della diagnosi psichiatrica, la diagnosi psicoanalitica non si costruisce a partire dalla classificazione dei sintomi e dei segni ma dall’ascolto di quel particolare soggetto, dei significanti che hanno orientato la sua vita. Il sintomo che conduce un soggetto dall’analista è tale non perché deve essere categorizzato ma per il soggetto stesso, poiché ad esso il soggetto attribuisce un senso e non solo una disfunzione. In più, nell’indagine psicoanalitica dei sintomi di un paziente, è in gioco anche il godimento ad esso connesso: il sintomo non è solo qualcosa a cui dare un senso ma anche il modo attraverso cui il soggetto ottiene un godimento supplementare, un attaccamento al sintomo che, paradossalmente, fa godere il soggetto di ciò di cui soffre.

- Dott.ssa Rossana Curatolo

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