lunedì 24 aprile 2023

L’ABC della terapia psicoanalitica: sintomo, domanda, transfert

 

 

"La psicoanalisi come scienza è caratterizzata non dalla materia che tratta, ma dalla tecnica con la quale opera. La si può applicare tanto alla storia della civiltà, alla scienza delle religioni e alla mitologia quanto alla teoria delle nevrosi, senza far violenza alla sua natura. Ciò cui essa mira e che raggiunge non è altro che la scoperta dell'inconscio nella vita psichica."1



Quando iniziare una psicoanalisi? Il sintomo


A spingere una persona ad iniziare un’analisi è quasi sempre una sofferenza che rappresenta la vera motivazione che la costringe a rivedere, ripensare e modificare tutto ciò che prima della comparsa del malessere psichico ha sempre considerato come normale, scontato, abitudinario, necessario, funzionale. Per questo motivo l'analisi può esistere solo quando risponde ad una domanda esclusivamente personale, e non ad un obbligo imposto dall’esterno.


La psicoanalisi è rivolta a chi intende arrivare alla radice dei propri problemi, a chi intende liberarsi non solo dei sintomi ma anche delle loro cause. Quando infatti emerge un sintomo, causando disagio e sofferenza, o quando semplicemente la persona "entra in crisi" a seguito di particolari eventi nella vita che alterano l'equilibrio preesistente, tale stato rappresenta il segnale che qualcosa non sta funzionando correttamente al suo interno. Ed è in questo momento cruciale che alla persona viene donata una preziosa opportunità: o cercare di rinforzare la fuga dal contatto con questa sofferenza interiore, oppure utilizzarla come forza e strumento di ricerca, scoperta e cambiamento.


Dal punto di vista clinico la psicoanalisi generalmente è rivolta a chi:

  • manifesta sintomi che causano malessere e disagio psichico come ansie, attacchi di panico, pensieri ricorrenti e disturbanti, disturbi psicosomatici, disturbi affettivi, disturbi sessuali, disturbi alimentari, inibizioni relazionali, angoscia pervasiva, fobie invalidanti, rituali ossessivi…;
  • vive particolari difficoltà in alcune aree della propria vita (professionale, amorosa, sociale…);
  • sente di essere intrappolato in abitudini, condotte e dinamiche ripetitive che portano a compiere sempre i soliti errori.


La domanda di cura


Quando un paziente si rivolge ad uno psicoanalista, chiede sostanzialmente di stare meglio, di guarire. Ciò che è importante che avvenga durante la prima fase della cura è un processo di soggettivazione, ossia che il soggetto sofferente decida di voler conoscere la causa della propria sofferenza.


La soggettivazione inizia quando la domanda di cura si trasforma in una domanda di sapere: la domanda iniziale del paziente diventa una questione enigmatica che si lega al sintomo di cui il paziente soffre.


In questo enigma il paziente deve arrivare a riconoscere una implicazione soggettiva: la questione che porta lo riguarda in prima persona.

In questo modo il discorso del paziente si modifica passando da una lamento relativo a qualcosa che inizialmente è visto come esterno, al desiderare di volerne sapere di più, su di sé e sul proprio funzionamento.


Il transfert


Il transfert è un fenomeno scoperto dal padre della psicoanalisi. Sigmund Freud, nel corso delle sedute di analisi, si rende conto che i pazienti sviluppano nei suoi confronti un attaccamento di natura “amorosa”. All'inizio considera questo legame come una trasposizione sulla persona dell’analista delle prime figure di riferimento del paziente, tipicamente la madre o il padre, e questo permette un’elaborazione delle dinamiche personali e relazionali del paziente.


Jacques Lacan aggiunge alla concezione freudiana del transfert una funzione di significazione. L’analista, permette al paziente di ascoltare ciò che lui stesso dice senza accorgersi, gli fa da eco. Ciò che il soggetto dice si trasforma in ciò che si dice (a se stesso). In questo modo, sentendosi dire certe cose, realizza di averle dette e ne trae delle conseguenze.

L’operazione analitica consiste dunque nell’analista che fa da eco alla parola del paziente e fa così risuonare ciò che questi dice senza saperlo. Spinge l'inconscio ad uscire allo scoperto.


La psicoanalisi non è una pratica consolatoria. Indubbiamente c’è un aspetto di contenimento affettivo, soprattutto quando il malessere è intenso. Ma il focus di un’analisi rimane la decifrazione dell’inconscio, del groviglio di cause che hanno portato a star male.

Il transfert è il motore dell’analisi: è quell’elemento fondamentale che aiuta il paziente a passare dall’essere un soggetto passivo, “bisognoso” di cure ad un soggetto attivo, implicato nella sua sofferenza. Questo passaggio è molto importante per prendere consapevolezza di sé e, di conseguenza, stare meglio.






1 Freud. S (1915-1917). Introduzione alla psicoanalisi. OSF vol. VIII. Bollati Boringhieri, Torino, 1977.






lunedì 24 gennaio 2022

Social network e identità: chi vogliamo mostrare attraverso i nostri post?




I social network sono ormai utilizzati quotidianamente in maniera più o meno assidua e hanno dilagato in poco tempo conquistando più o meno tutti. È interessante provare a capire che cosa ha attirato le persone su queste piattaforme, quali potrebbero essere i rischi psicologicamente più profondi e i vantaggi, da un punto di vista psicoanalitico. 

Identità e immagine nel mondo dei Social

Identità è un concetto psicologico che ha a che fare con ciò che l’individuo pensa di se stesso. Nello specifico, essa coincide con l’Io, dunque con la rappresentazione che ciascuno ha di sé.

Se ci pensiamo, i Social permettono di infiocchettare l’Io, abbellendolo e smussandone gli aspetti meno positivi. I Social Network come Facebook o Instagram danno in effetti la possibilità di scegliere accuratamente il modo in cui presentarsi sul palcoscenico digitale, tramite immagini, frasi, video.

In questo contesto ma non solo, possiamo notare che esiste una forte identificazione tra l’Io e l’Ideale, che sembra trasformare il soggetto in oggetto: questo risulta dalla tendenza a fissarsi sull’immagine illusoria del proprio profilo Social e dall’intenzione a proporre questo Io come oggetto da “vendere”, nella sua massima esposizione agli altri.

Potrebbe essere che l’idea che vorremmo far passare è che l’immagine che emerge dal profilo costituisca la realtà, o meglio, che quella sia la verità sul corpo e sulla nostra identità. 

Reale, ideale, perfezione

In alcuni casi la serie delle immagini proposte è tutta uguale: questo richiama qualcosa della ripetizione (intesa come ripetizione sintomatica) un voler essere idealmente perfetti, non accettando la minima variazione che, umanamente, il corpo subisce di ora in ora per condizioni interne ed esterne. I filtri delle applicazioni fotografiche servono proprio a questo: a togliere, forse negare nei casi più gravi, ogni sbavatura, ogni differenza dall’Ideale. Il sembiante della foto perfetta viene confuso, mescolato con l’essere reale del soggetto.

“L’annullamento della differenza tra essere e sembiante, tra ciò che un soggetto è e come esso viene rappresentato dalla catena dei significanti sociali a cui aderisce, […] avviene […] per un eccesso di identificazione, per una cristallizzazione della maschera sociale, per una adesione inerte, per un suo incollamento conformistico. È ciò che Cristopher Bollas nomina come caratteristica principale delle personalità normotiche, nelle quali l’espressione della sofferenza individuale non avviene come esplosione delirante e anarchica della soggettività ma come distruzione del fattore soggettivo1.

I rischi dell’apparire

L’accesso di massa ai Social ha imposto una loro modalità di utilizzo che sembra ormai totalmente smarcata da quello che sembrava l’obiettivo originario, ovvero mettere in connessione persone che non si vedono da tempo o che altrimenti non si incontrerebbero mai. 
La condivisione di materiale prettamente visivo ha superato quella dei contenuti, sancendo un impoverimento ed un appiattimento dello scambio sul solo registro dell’immagine. 

I meccanismi che governano la società consumistica in cui viviamo si rafforzano sulla fragilità narcisistica delle persone per vendere delle identità artificiali, vacillanti e hanno finito per monopolizzare l’uso dei social in senso esibizionistico, asservendoli alla logica dell’apparire.  

Quali rischi si nascondono in questo impulso ad apparire? 

Sicuramente la prima conseguenza che salta all’occhio è la dipendenza. Il cellulare e le sue immagini diventano indispensabili per garantirsi un senso di adeguatezza personale, al punto tale da invadere molto tempo e spazio di una giornata, dallo studio, al lavoro, alle relazioni. Ciò a spese della qualità dell’attenzione dedicata al mondo vero, in un ripiegamento che anziché includere, esclude e aliena sempre di più.

Ne deriva un paradosso clamoroso: per inserirsi, per sentire di avere un posto, un ruolo, un’identità adeguata e “vincente” si finisce per mettersi in vetrina, senza rendersi conto della prigione che essa rappresenta. Quel vetro, si rivela infatti un muro invalicabile, che inchioda nel bisogno di dover dimostrare qualcosa, per di più ad uno spettatore anonimo. Il rapporto con l’altro è così mancato, tutta la dinamica diventa un riferirsi solamente a se stessi, ad un interlocutore che diventa una proiezione di sé. 

Per concludere

I social network sono nati, almeno apparentemente, con lo scopo di mettere in connessione persone che altrimenti non avrebbero altre opportunità di conoscersi, permettendo scambi di informazioni e idee in tempo reale. Un’opportunità incredibile, che, se ben gestita da personalità mature e strutturate, può allargare orizzonti, consentire esperienze conoscitive interessanti e diffondere cultura.

Quando invece i Social si trasformano in una sorta di protesi narcisistica di se stessi, questo può fornirci uno spunto al lavoro psicologico e terapeutico. Vale la pena considerare il ruolo che può avere l’utilizzo dei Social Network in persone psicologicamente già fragili da un punto di vista strutturale e narcisistico, oltre a cogliere precocemente i campanelli di allarme di un utilizzo scorretto di queste piattaforme virtuali soprattutto nei giovanissimi e negli adolescenti.

Smarcarci dalla cultura dell’esibizione, metterla in discussione, sono passi importanti per la limitazione di un’onda i cui effetti potrebbero essere peggiori in futuro.

 





[1.Recalcati, M. (2010), Luomo senza inconscio. Figure della nuova clinica psicoanalitica. Cortina, Milano.]




Dott.ssa Rossana Curatolo
 

venerdì 7 gennaio 2022

Le parole di Jacques Lacan

 

"Io dico sempre la verità: non tutta, perché a dirla tutta non ci si riesce. Dirla tutta è impossibile materialmente. Mancano le parole. È proprio per questo impossibile che la verità attiene al Reale".

Jacques Lacan, Télévision


giovedì 2 settembre 2021

I sintomi psicologici: nemici da combattere o segni da ascoltare?


Hai mai avuto esperienza di un sintomo, di un disagio, di un problema, di una strana e immotivata angoscia che ti affligge e che non ti fa vivere serenamente?
Ti sei mai chiesto “che cosa vuol dire?” o quale sia l’origine del problema?
Spesso, nella società odierna, si tende a voler risolvere ed eliminare un sintomo nel più breve tempo possibile, ponendosi passivamente come vittima di qualcosa che colpisce dall’esterno. Perché, invece, non provare a riconoscere il problema e interrogarsi su di esso?

Che cos’è un sintomo psicologico?


In medicina il sintomo è indice di una latenza patologica, di un’irregolarità nel funzionamento dell’organismo. Per questo motivo, nella percezione comune, il sintomo, anche quello psicologico, è in gran parte vissuto e considerato soltanto come l’effetto di una condizione da eliminare velocemente.

Sigmund Freud è stato il primo ad includere nell’indagine medica, l’esplorazione della psiche umana, trasformando l’approccio alla sofferenza e il modo di intendere i sintomi, visti non solo come problematicità, inciampi da eliminare, bensì come espressioni di un dinamismo psichico più ampio e complesso.

Il sintomo psicologico si può presentare in vari modi: con l’ansia, gli attacchi di panico, con comportamenti ossessivi e compulsivi, con disturbi dell’umore come la depressione o la mania, con una bassa autostima, con modalità relazionali insoddisfacenti, con comportamenti autolesionistici, con disturbi del comportamento alimentare come l’anoressia o la bulimia, con problematiche psicosomatiche, ecc.

Come possiamo intendere allora il sintomo? Come una metafora che reclama la sua interpretazione e che costituisce una chiave di volta verso la comprensione di quanto sta accadendo in noi stessi.

Il sintomo serve a qualcosa?

Un sintomo può essere faticoso, invalidante, sfibrante; potrebbe essere il risultato di un conflitto inconscio.

Il sintomo ha bisogno di essere accolto, ascoltato e inserito in una cornice di significato più ampia per la persona.

Esso ha una funzione specifica e anche dei vantaggi inconsci. Non si può immaginare di comprenderlo se non si comprende la storia del soggetto e la sue dinamiche. Il complesso lavoro di un’analisi è quello di aiutare la persona a cogliere il vantaggio del proprio sintomo, la funzione indispensabile per la sua economia psichica e cogliere - con la sua modalità paradossale - le motivazioni che ha il sintomo di presentarsi e ciò che va a soddisfare. Solo in un percorso di cura possono emergere questi aspetti, essere avvicinati ed essere lavorati.

L’inconscio ha le sue ragioni e le sue modalità di manifestarsi, esse vanno esplorate e comprese, necessitano di essere incluse in una visione più complessa e ampia della persona. Così anche il sintomo, non possiamo immaginare di eliminarlo attraverso un lavoro basato, ad esempio, sul condizionamento ma va ampliato il discorso che si condensa in esso. E così che si coglie il suo vantaggio ed è così che può essere affrontato. Questo lavoro non ha a che vedere con un ragionamento lineare, non per niente la regola fondamentale della psicoanalisi riguarda l’uso delle libere associazioni, “parlare senza pensare”, cogliendo i nessi e i nodi che emergono nel nostro discorso.

Come affrontare un sintomo psicologico?

Quando si sta male a causa di un sintomo si vorrebbe avere una soluzione rapida, che ripristini lo stato precedente alla crisi. Non è facile confrontarsi con il dolore, con l’angoscia che un sintomo provoca, con le difficoltà che ci pone rispetto alla quotidianità.

Può apparire più semplice pensare di stare meglio grazie ad un intervento che reprima prontamente un sintomo che fa soffrire. Ma il sintomo porta un messaggio da un luogo intimo e profondo della persona. Non dare la giusta considerazione al sintomo può comportare un prezzo più grande da pagare, in termini di sofferenza psicologica, emotiva e fisica.

Occorre dunque comprendere che affrontare questa sofferenza richiede modi e spazi specifici e solo intuendo cosa sostiene quel sintomo è possibile anche affrontarlo.

La cura psicoanalitica ha questo obiettivo: comprendere lo scenario del sintomo per lavorare sulle cause e non solo sulle manifestazioni del problema, in modo tale che esso non si ripresenti sotto altre forme.

Conclusioni

In conclusione, aggiungo che ha una certa rilevanza il ruolo della società postmoderna in cui viviamo: il sintomo possiamo leggerlo come il prodotto di una normalizzazione a tutti i costi. Infatti, l’assenza di sintomi si paga al caro prezzo di un soffocamento delle più autentiche aspirazioni, di una mancata autorealizzazione e della perdita di integrità del proprio essere. Il presentarsi di un qualsiasi sintomo può significare che, nonostante tutto, è in atto un processo vitale di protesta che, in realtà, può aiutare a condurre ad una maggiore consapevolezza di sé.



Dott.ssa Rossana Curatolo


martedì 6 luglio 2021

Perfetti sconosciuti

 “Siamo frangibili, tutti, chi più chi meno”.  Sintesi e commento del film




“Perfetti sconosciuti”, uscito nel 2016 e diretto da Paolo Genovese, è un intrigante film tra la commedia e il drammatico, divertente e allo stesso tempo angoscioso, in grado di portare alla luce la frangibilità della natura umana.



La trama


La sceneggiatura è organizzata tutta in una serata, all’interno dell’appartamento romano di Eva e Rocco, una coppia che organizza una cena tra amici di vecchia data, in occasione di un’eclissi lunare. Gli invitati sono altre coppie di amici, Cosimo e Bianca, Lele e Carlotta, e Peppe, insegnante di educazione fisica. Peppe è fidanzato da poco con Lucilla che però non è presente alla cena.


Gli eventi ruotano attorno ad un gioco che Eva propone di fare ad inizio serata: tutti dovranno mettere il proprio cellulare in mezzo al tavolo e ogni chiamata o messaggio che arriva dovranno essere condivisi con gli altri. Per non mostrare di avere qualcosa da nascondere, accettano tutti. Ci accorgeremo presto che ognuno di loro ha almeno un segreto che non ha confessato a nessuno, tantomeno ai propri compagni e amici più cari.


Per colpa o grazie al gioco degli smartphone, viene a galla una serie di verità che rischiano di distruggere le varie coppie: Rocco, chirurgo plastico, è in analisi all’insaputa della moglie Eva, che fa la psicoanalista e, a sua volta, ha in programma di rifarsi il seno; Carlotta e Lele hanno, entrambi, altre relazioni virtuali e Carlotta sta organizzando di nascosto un trasferimento della madre di Lele in una casa di riposo. Bianca ha contatti con il suo ex e Cosimo nasconde due relazioni extraconiugali, una con la collega Marika e l’altra proprio con Eva. 

Anche Peppe ha mentito: la sua fidanzata non si chiama Lucilla ma Lucio. Questa rivelazione scatena reazioni di rabbia, stupore e sfottò proprio da parte degli amici più stretti.


In un climax di tensione e rivelazioni, Bianca scopre che suo marito non solo le è infedele  ma che la collega Marika aspetta un figlio da lui; Carlotta arriva poi a confessare che, anni prima, ha investito un uomo guidando ubriaca ma suo marito si è preso la colpa al posto suo.

Bianca, dopo lo shock causato dai tradimenti di Cosimo e dopo essersi chiusa in bagno a vomitare, riappare per andarsene; toglie la fede, saluta Peppe, l'unica persona che considera genuina, e lascia per sempre Cosimo.


Il finale


Il film sembra procedere in modo coerente fino alla fine, facendo cadere una ad una tutte le maschere indossate dai personaggi e rivelandone i segreti e le bugie grandi e piccole, le ipocrisie.

In realtà, finita la cena e conclusasi anche l’eclissi lunare, quando Rocco ed Eva sono in camera da letto, si scopre che il gioco non è mai avvenuto grazie a Rocco, che ha insistito per evitare di farlo. Ci accorgiamo quindi che tutto quello che abbiamo visto è la messa in scena di una sorta di realtà parallela, dove un gioco apparentemente innocente avrebbe distrutto amicizie e rapporti familiari.

Alla domanda di Eva a Rocco sul perché non abbia accettato di giocare, il marito, consapevole dei danni che il gioco avrebbe creato, le risponde con una riflessione: “siamo frangibili, tutti, chi più chi meno”. 

Non essendosi verificato il gioco e, di conseguenza, non essendo emersa alcuna rivelazione, ognuno dei protagonisti torna alla propria vita e alle proprie verità nascoste.


Il finale ci mostra, in maniera decisamente inaspettata, i diversi personaggi tornare a casa dalla cena esattamente come ci erano arrivati. Nessuno ha scoperto nulla di quel che gli altri nascondono e tutti continuano, ignari, le loro esistenze segnate da reciproci segreti sulle loro relazioni o sulla loro identità, come nel caso di Peppe, omossessuale incapace di dichiararsi tale ai suoi amici di sempre, i quali, nella messa in scena della realtà ipotetica dove tutto è svelato, si sono mostrati insensibili e poco comprensivi.


La verità


La verità rende davvero liberi? E’ qualcosa da preservare, da nascondere o da condividere?

Il finale del film sembrerebbe alludere alla possibilità che Rocco in realtà sia un narratore onnisciente, che sia consapevole di ogni cosa, incluso il tradimento di Eva. Proprio per questo, il chirurgo potrebbe aver scelto la strada della protezione dalla verità, o meglio del non detto con cui ognuno convive e che, in molti casi, viene indirizzato in quella scatola nera che è il proprio cellulare. A prima vista il film potrebbe essere inteso proprio come un’amara critica allo smartphone e ai suoi più disparati utilizzi.


Scavando nel film più approfonditamente, quello che emerge è la vulnerabilità, la frangibilità dell’essere umano alle prese con la sua stessa esistenza. Giocare o non giocare? La scelta finale del regista è che la verità della vita dei personaggi venga tutelata: nessuno è stato, in realtà, costretto a stare al centro del palcoscenico. 

Ciò significa, da una parte, come Pirandello insegna, che l’autenticità è più ideale che reale, ed è pure irraggiungibile all’interno della socialità e degli scambi relazionali - caratterizzati da una serie di regole implicite e riti che non si possono o non si vogliono infrangere. Dall’altra, il personaggio di Rocco ci aiuta a capire che il gioco apparentemente innocente inscenato a cena è inattuabile proprio per tutelare le nostre difese più intime, ma, a dirla tutta, è anche non necessario: la verità, se si guarda bene, è a portata di mano e, basta frugare un po’ più a fondo, dietro la superficie, per afferrarne la sua dura, spiacevole consistenza.



Dott.ssa Rossana Curatolo


sabato 6 giugno 2020

Due parole sulla psicoanalisi e sull'inconscio


Il desiderio di parlare di quello che è il mio lavoro, nasce dalla passione che ho verso la psicoanalisi e dalla scarsa conoscenza che c'è verso questo sapere non degnamente conosciuto.
Spero di non semplificare troppo dicendo che psicologia e psicoanalisi non sono sinonimi: sono due modi di approcciarsi ai pazienti e al sapere clinico completamente diversi. La psicologia si occupa, tendenzialmente, di ciò che si vede; osserva i comportamenti, accoglie ciò che il paziente sostiene sia disfunzionale per lui (e per gli altri), e propone una soluzione utile a cancellare, aggiustare, adeguare quel comportamento alle richieste sociali. 
La psicoanalisi parte dallo stesso presupposto: aprire la porta a un paziente che sta male e vuole liberarsi di un sintomo o vuole modificare un comportamento, un atteggiamento, un pensiero, un'angoscia...che gli crea problemi a relazionarsi con gli altri. Ed è proprio quando qualcosa viene vissuto come un problema che può nascere una domanda di cura. 
In psicoanalisi non ci fermiamo però solo a questo: aiutare una persona a vivere meglio la sua vita è una nostra prerogativa di clinici, ma ciò non avviene attraverso l'assistenzialismo, la ricetta, il protocollo predefinito e valido per tutti; questo è, giustamente, il campo della medicina e di altri approcci psicoterapeutici che propongono pacchetti di cura uguali per tutti. 
La psicoanalisi va alla ricerca del soggetto che sta dietro alla persona, della sua verità e della sua responsabilità nel portare avanti la sua vita. Responsabilità non la intendo all'interno di una concezione negativa, di colpa o di errore; ma come una implicazione negli eventi della nostra vita, nel modo che abbiamo di interpretare e reagire ad essi, nelle scelte consapevoli e meno consapevoli che compiamo. 
La psicoanalisi non si limita a risolvere i sintomi, a correggere o normalizzare la vita delle persone, adeguandola e conformandola a degli standard sociali. Cerca, invece, di scoprire le cause che sono alla base delle sofferenze e cosa influisce in un individuo a vivere male. O meglio, è il paziente che lo fa in analisi parlando liberamente di sé, raccontando tutto ciò che gli viene in mente. 
In poche parole, la psicoanalisi si occupa dell'inconscio. E le libere associazioni contribuiscono a farlo emergere. Sigmund Freud, per primo, scoprì che i disturbi psichici hanno origine proprio nell'inconscio, da lui inteso come un "luogo" della mente di cui non sappiamo nulla perché lontano dalla coscienza. Con il parlare libero e spontaneo l'inconscio può essere più facilmente accessibile, così come lo è attraverso i sogni o in quelle situazioni che si verificano al di fuori del nostro controllo e che Freud definiva atti mancati: i lapsus, le dimenticanze, errori generici. 
In analisi, dunque, conoscendo bene l'efficacia delle libere associazioni, invitiamo a parlare prima di pensare, e non il contrario.  
L'inconscio è qualcosa di quanto più personale ci possa essere. Lo possiamo considerare non solo come un luogo, ma, come avrebbe detto Jacques Lacan, un'altra scena del nostro essere, quella che non appare, ma che esiste e che ha un suo funzionamento, le sue regole, un suo linguaggio. Non è solo un contenitore ma è qualcosa che lavora, seleziona, ritaglia continuamente ciò che trova per farne la fonte dei nostri desideri e il fondamento della nostra soggettività.
Ciò che avviene nella stanza d'analisi è qualcosa di magico ed efficace, per comprenderlo a fondo bisognerebbe provarlo. E per provarlo dovremmo averne sia i motivi sia il coraggio.



"In psicoanalisi i termini malatomedicomedicina non sono esatti, non si usano. Non sono giuste neppure le formule passive che si adoperano comunemente. Si dice «farsi psicoanalizzare». È sbagliato. Chi fa il vero lavoro, nell’analisi, è quello che parla, il soggetto analizzante. Anche se lo fa nel modo suggerito dall’analista, che gli indica come procedere e lo aiuta con interventi. Gli viene fornita anche un’interpretazione, che a prima botta sembra dare un senso a quello che l’analizzante dice.

In realtà l’interpretazione è più sottile, tesa a cancellare il senso delle cose di cui il soggetto soffre. Il fine è quello di mostrargli, attraverso il suo stesso racconto, che il suo sintomo, la malattia, diciamo, non ha alcun rapporto con niente, è privo di qualsiasi senso. Quindi, anche se in apparenza è reale, non esiste". [Jacques Lacan]


- Dott.ssa Rossana Curatolo